La mostra
Andrea Lerda
Curatore
Museo Nazionale della Montagna, Torino
Il titolo della mostra nasce da una suggestione personale percepita durante il periodo pandemico e dalla concomitante lettura del testo Losing Eden. Why Our Minds Need the Wild della scrittrice Lucy Jones.
Gli allentamenti delle restrizioni che avevano costretto milioni di persone al confinamento nelle proprie abitazioni offrivano immagini inedite che mi hanno colpito profondamente. Tutto ad’un tratto le persone affollavano montagne, parchi, litorali marini e ogni luogo dove quel respiro, fisico e mentale, strozzato dallo stress pandemico e dalla reclusione urbana, potesse tornare a essere libero, pieno, vitale. Le parole di Ruyu Hung, che avevano guidato la costruzione della mostra Ecophilia. Esplorare l’alterità, sviluppare empatia (concepita prima della pandemia), si materializzavano inaspettatamente.
A spingere tutta quella gente verso i luoghi naturali non era solo il bisogno fisico di evadere da spazi chiusi, bensì il richiamo innato e primordiale a stare nella natura.
Ecco rappresentato il concetto di ecophilia1. Ecco l’essere umano contemporaneo, tecnocapitalista, digitale, ma totalmente disconnesso dal mondo naturale, che assecondava un richiamo, in parte razionale e in parte biologico, allo stare a diretto contatto con la materia naturale.
Una materia visibile, laddove osservabile e scientificamente spiegabile, e in misura probabilmente ancora maggiore impercettibile, in grado di esercitare un’azione rigenerante sul nostro corpo e sulla nostra mente.
Sostenere che il Superorganismo del quale siamo parte possa esercitare un’azione benefica su noi esseri umani, potrebbe sembrare una credenza animistica, il frutto di una suggestione collettiva o di qualche retaggio eretico più legato alla magia che alla realtà. Ma indagini scientificamente approfondite in materia sono in corso ormai da circa quarant’anni. Fu il professore Rober Ulrich, nel 1984, ad avviare le prime ricerche in tal senso, realizzando esperimenti volti a “misurare” come l’esposizione a elementi naturali fosse un vettore per il recupero dello stress e per i processi di guarigione. Molte sono state poi le ricerche nate in Giappone, dove ricercatori, come il prof. Qing Li, dal 2005 analizzano l’impatto positivo che la permanenza in una foresta è in grado di produrre sul nostro corpo e sulla nostra mente. La risposta al tecno-stress che fin dagli anni Ottanta caratterizza, in modo particolare, la società giapponese, ha portato alla nascita dello Shinrin-yoku o Forest bathing (bagno di foresta), quale rimedio terapeutico e strumento di prevenzione alle conseguenze negative che le condizioni della vita odierna producono sulle persone.
Già oltre cento anni prima, nel 1859, l’infermiera britannica Florence Nightingale, considerata la fondatrice dell’assistenza medica moderna, scriveva del contributo della natura ai processi di guarigione, pur senza avere modo di dimostrare le sue parole attraverso metodi scientifici. Nelle sue Notes on Nursuring, in riferimento alle osservazioni sui pazienti di cui si prendeva cura, commenta: “Ho veduto nei casi di febbre (ed ho sentito, quando io avevo la febbre), produrre nel paziente il più acuto dolore per non potere vedere fuori da una finestra […] Non dimenticherò mai l’estasi dei febbricitanti alla vista di un mazzo di fiori di brillanti colori. Mi ricordo che (nel mio proprio caso) mi fu mandato un mazzolino di fiori selvatici, e da quel momento si accelerò la mia guarigione”2.
In maniera forse ancor più consapevole, la Nightingale parla del ruolo dell’aria fresca e della luce del sole, in grado di produrre effetti reali e tangibili sul corpo umano. L’infermiera osserva che “tutti i pazienti si tengono colla faccia rivolta verso la luce, esattamente come fanno le piante” e “che si esponga al sole o un fiore o un corpo umano smunto ed appassito, tanto l’uno quanto l’altro, se non è troppo sfinito, tornerà a prosperare”3.
Se per Florence Nightingale “la natura è più forte dei medici di moda”4, negli stessi anni, Frederick Law Olmsted, architetto paesaggista e urbanista statunitense che a metà Ottocento realizzò il progetto per il Central Park di New York, scrive che “It is a scientific fact that the occasional contemplation of natural scenes of an impressive character […] is favorable to the health and vigor of men”5.
Di affermazioni come queste, non guidate da dimostrazioni scientifiche rigorose, ne sono state fatte per molto tempo. Oggi però sono numerosi gli studi (in modo particolare in America e in Giappone) i cui dati, raccolti attraverso esperimenti rigorosi su larga scala, legano l’esposizione alla natura alla minore incidenza di allergie, di disturbi autoimmuni e di alti livelli di stress, a un miglioramento delle funzioni cardiovascolari, degli indici emodinamici, neuroendocrini, metabolici e ossidativi, nonché dei processi mentali e del benessere psichico.
Nel frattempo, sempre in Giappone, il sistema sanitario nazionale ha adottato la pratica dello Shinrin-yoku come vera e propria terapia medica. Anche nel Regno Unito, dal 2021 le passeggiate a contatto con la natura sono diventate una vera e propria cura che i medici possono prescrivere attraverso una ricetta medica. Più di recente, il 31 gennaio 2022 il Canada ha annunciato la sua adesione al PaRx, programma nazionale di “prescrizione della natura” e i medici possono ora consigliare ai propri pazienti un trattamento terapeutico al suo interno. L’impegno di PaRx per migliorare la salute dei pazienti è stato recentemente riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo Rapporto Speciale COP26 sui cambiamenti climatici e la salute.
I fronti di ricerca aperti in questo ambito sono dunque numerosi. Alcuni di essi – approfonditi grazie a una serie di contributi di carattere scientifico-divulgativo – vengono esplorati in mostra, in relazione alle opere presenti, da Federica Zabini e Francesco Meneguzzo, ricercatori presso l’Istituto per la BioEconomia del Consiglio Nazionale per le Ricerche.
Mi limiterò a citarne alcuni.
Nel 1964, i ricercatori australiani Isabel J. Bear e Richard G. Thomas pubblicano sulla rivista “Nature”6 un articolo nel quale utilizzano il termine “petrichor” – petros (pietra) e ichor (il sangue degli dei) – per descrivere il profumo di pioggia sulla terra arida. Il fenomeno olfattivo, reso possibile dall’aerosol atmosferico che i due scienziati hanno documentato, ha origine dalla diffusione nell’aria di oli essenziali (precedentemente prodotti dalle piante) da spore funginee, batteri e dalla geosmina7 presente nel materiale geologico.
Più di recente, gli scienziati del MIT di Boston8 hanno dimostrato che una maggiore quantità di aerosol viene prodotta su rocce porose e quando la pioggia cade lentamente piuttosto che velocemente, perché queste condizioni danno il tempo all’aria intrappolata nel materiale geologico di uscire dal minerale ed essere vaporizzata nell’aria.
In ambienti poco urbanizzati, come la montagna, la geosmina prevale sulla presenza di ozono nell’aria e quindi viene percepita in maniera più intensa. È per questo motivo che in montagna si avverte subito quel particolare odore di terra fin dall’avvicinarsi di una precipitazione. Sono numerosi gli studi che, a livello internazionale, stanno analizzando gli effetti positivi del petrichor e della geosmina sull’attività cerebrale dell’essere umano. Ricercatori della School of Natural Resources and Environmental Sciences della Corea del Sud e del Dipartimento di Neurobiologia e Comportamento della Stony Brook University di New York hanno concluso che essi sono in grado di generare emozioni profonde che calmano la mente e alleviano l’ansia.
Studi recenti sono stati condotti anche sul batterio M. Vaccae, presente nella terra, e sul suo potere antinfiammatorio9; sul canto degli uccelli e sul suono del vento, in grado di ridurre lo stress e produrre un riequilibrio del sistema nervoso10; sul ruolo che l’odore del legno di cedro riveste nella stimolazione dell’attività nervosa parasimpatica che rallenta il battito cardiaco, portando a uno stato di rilassamento fisiologico, nonché sul potere dei frattali, la cui stimolazione visiva aiuta a ripristinare la funzione del cervello umano, agendo attraverso l’attivazione della plasticità cerebrale11. Ricca è poi la ricerca scientifica che documenta gli effetti del Forest bathing, come esso abbia effetti sui parametri cardiovascolari e metabolici12, o come la presenza dei fitoncidi emessi dagli alberi e dalle piante abbia la capacità di potenziare il sistema immunitario aumentando le cellule “natural killer” e i livelli intercellulari di proteine anticancro13. Un recente studio condotto da una serie di ricercatori giapponesi ha documentato come il contatto con una foresta possa avere effetti di rilassamento fisico e psicologico significativi su esseri umani ipertesi14. Un’altra ricerca attualmente in corso, proposta da Alessandro Vercelli e Paola Rocca dell’Università degli Studi di Torino, è finalizzata a studiare il ruolo preventivo e terapeutico dell’ambiente “verde” (alberi, prati, foreste, parchi, …) e di quello “blu” (laghi, fiumi, acque costiere, …) sullo sviluppo di alcune patologie neuropsichiatriche e sul fabbisogno di farmaci correlato. Il progetto, prendendo in esame pazienti affetti da depressione e schizofrenia, intende valutare l’importanza del vivere in un ambiente urbano vicino al verde o al blu sulla salute mentale, e quali tipi di spazi verdi contino di più per il benessere psichico.
Studi simili sono stati condotti già in passato, ad esempio da parte di Jolanda Maaes e altri ricercatori, che hanno dimostrato la relazione tra verde e benessere, in modo particolare per i bambini e per i gruppi socioeconomici più deboli15.
Nel 2012, ricercatori della University of Illinois at Urbana-Champaign hanno invece analizzato come la vista del verde presente in natura abbia straordinari effetti benefici su una serie di soggetti affetti da quella che è stata definita la sindrome da “natural deficit disorder”16. Richard Louv parla di “natural deficit disorder” nel descrivere come la privazione del contatto con la natura ci renda vulnerabili a un’ampia gamma di esiti negativi per la salute. L’elenco, che potrebbe continuare a lungo, testimonia il crescente interesse da parte della scienza per questo ambito17.
La mostra The Mountain Touch, caratterizzata da un approccio arte-scienza, naturalmente non punta a offrire risposte certe in materia, ma a sollevare una serie di interrogativi. Quale impatto potrà avere la devastazione ambientale in corso sulla nostra salute futura? Come ricorrere all’ecoterapia per far fronte all’ecoalienazione? Che ruolo rivestono esperienze come la montagnaterapia, la terapia forestale, l’ormai noto Shinrin-yoku o bagno di foresta, la progettazione biofilica e quella di parchi urbani nell’arginare la sindrome da “deficit di natura” o le malattie mentali psicoterratiche?
Come scrive Florence Williams nel suo libro The Nature Fix, il genere umano si sta trasformando da Homo Sapiens a “Metro sapiens”18 e nei prossimi trent’anni le previsioni dicono che due miliardi di persone si sposteranno verso le grandi città, portando al 75% la quantità di abitanti che vivrà in aree urbane. Il processo di urbanizzazione − se non accompagnato da un approccio biofilico che integri la vita umana con la natura − produrrà una progressiva espansione delle città a discapito delle risorse naturali necessarie ad alimentare questa crescita.
È possibile che in futuro la nostra mancanza di contatto con il mondo naturale favorisca disordini ancora maggiori sulla nostra salute fisica e mentale?
In che modo l’ulteriore ampliarsi delle conoscenze scientifiche in questo ambito potrà condizionare il ruolo della montagna nel tempo a venire?
Possiamo immaginare in che modo l’ulteriore degrado delle foreste, la siccità, la fusione dei ghiacciai alpini, la modificazione dei paesaggi, la scomparsa di sonorità naturali come il cinguettio degli uccelli, il rumore di una cascata di montagna, o l’assenza di acqua nei ruscelli, nei fiumi e nei laghi, condizionerà anche la nostra salute mentale e fisica del prossimo futuro?
Provare a dare una risposta a questo tipo di quesiti rappresenta una sfida aperta per il mondo scientifico e l’occasione per ampliare la nostra conoscenza del mondo che abitiamo.
In Italia, dove secondo i dati Istat il territorio è per il 35% montano e per il 41,6% collinare, la montagna e le aree metromontane rivestono un ruolo cruciale.
È in questi luoghi che è racchiusa la maggior parte degli ambienti naturali e della biodiversità.
Abitare la montagna rappresenta oggi una grande sfida e, al tempo stesso, una straordinaria opportunità. Osservare il fenomeno del suo ripopolamento, anche attraverso la lente della dimensione salutare che questo luogo può offrire, significa intendere i territori montani come spazi non solo per il tempo libero, per lo sport, o per nuovi modelli di vita fuori dai grandi centri abitati, bensì come veri e propri laboratori terapeutici. La montagna, con le sue ricchezze naturali, può infatti diventare la portavoce di una natura che è terapia per la mente e il corpo dell’essere umano, nonché antidoto all’annichilimento biologico che esso ha prodotto.19
È attraverso questo sguardo e questa consapevolezza che le opere incluse nella mostra The Mountain Touch provano a veicolare una consapevolezza biocentrica e una sensibilità interspecie, sottolineando l’inscindibile mescolanza tra umano e altro dall’umano, tra vivente e non vivente, visibile e invisibile. I lavori esposti, alcuni dei quali nati dal dialogo diretto con il mondo della scienza, altri prodotti appositamente per questo progetto, stimolano l’osservazione della montagna e del mondo naturale attraverso uno sguardo aperto. Mediante esperienze visive, sonore, olfattive e tattili, lo spettatore è invitato ad addentrarsi in mondi sconosciuti, attraverso i quali vivere momenti di connessione multisensoriale con la natura e mediante i quali riflettere sul potenziale invisibile e inesplorato che in esso si cela.
Un mio doveroso e sentito ringraziamento va alle artiste e agli artisti, così come alle ricercatrici e ai ricercatori il cui contributo artistico e intellettuale ha reso possibile la realizzazione di questa mostra.
Note