Area 3
Nella sua ricerca, caratterizzata da un approccio multidisciplinare, Christian Fogarolli attinge
frequentemente da ricerche e saperi che provengono dal mondo della psicologia, della medicina,
dell’archivistica, oltre che dell’arte. Da sempre interessato a esplorare le dinamiche mentali,
sociali e culturali alla base del pensiero e dell’agire umano, Fogarolli ha realizzato l’opera
PillPlant, nella quale umano e non umano sono presentati come parti del medesimo
corpo.
Le
sculture in vetro soffiato, che riproducono organi, arti e parti umane, accolgono al loro
interno piante ed elementi naturali dalla comprovata efficacia terapeutica.
Recenti studi
dimostrano infatti che il contatto con ambienti naturali come aree verdi, boschi e foreste si
traduce in una minore incidenza di allergie, di disturbi autoimmuni e di alti livelli di stress
e, di contro, un miglioramento delle funzioni cardiovascolari, degli indici emodinamici,
neuroendocrini, metabolici e ossidativi, nonché dei processi mentali e del benessere psichico.
In questi ambienti naturali e montani sono presenti erbe officinali o piante medicinali;
prodotti naturali dotati di specifici principi attivi che possono essere di diverso genere:
antinfiammatori, sedativi, tonificanti, depurativi.
Il loro impiego risale a tempi molto
lontani. Se nell’antica Grecia rappresentavano l’unica soluzione possibile alla cura di disturbi
e malattie e verso la fine del Settecento viene studiata l’importanza terapeutica di queste
piante con
la nascita
della fitoterapia e dell’omeopatia, è verosimile che già il primitivo Ötzi, alle prese con
dolori intestinali, fosse solito consumare felci come tentativo di automedicazione.
Christian Fogarolli
PillPlant, 2024
Sculture in vetro soffiato, piante medicinali di montagna, liquidi e materiali vari
Dimensioni varie
Piante ed estratti forniti grazie alla collaborazione con NIRIS LAB, Polo Meccatronica, Rovereto
Courtesy l’artista e Galleria Alberta Pane, Parigi-Venezia
Biodiversità montana
Le condizioni ambientali estreme tipiche dell'ambiente montano costituiscono una grande
sfida per gli organismi viventi che vi abitano. L’interazione tra clima e montagne
produce un’eterogeneità ambientale estremamente complessa che porta a un’elevata
diversità delle specie che riescono ad adattarsi alle condizioni locali. La varietà
ecologica degli habitat, anche su brevi distanze altimetriche, e l’isolamento
geografico, rendono le montagne importanti centri di diversificazione e “hotspot” di
biodiversità1.
Le montagne ospitano infatti circa un terzo della diversità delle specie terrestri e
comprendono il 30% delle cosiddette aree chiave per la biodiversità – aree che
contribuiscono in modo significativo alla persistenza globale della biodiversità, e
regioni prioritarie per la conservazione.
Gli stress inducono le piante ad attrezzarsi per poter sopravvivere in condizioni
estreme. Marcate escursioni termiche, minori disponibilità di ossigeno, forti venti,
basse temperature, elevata radiazione solare, sono tutti fattori che comportano la
produzione di radicali liberi e altre molecole molto dannose per le strutture cellulari.
Per proteggersi dai radicali liberi, le piante montane producono elevate quantità di
composti antiossidanti, in grado di ridurre i danni che provocano alle cellule e ai
tessuti vegetali.
È anche per questo che le concentrazioni di composti antiossidanti presenti nella flora
delle terre alte sono spesso più elevate rispetto alle concentrazioni disponibili in
piante di collina o di pianura2. Soltanto piante
dell’agricoltura arida e
semi-desertica, dal melograno al mandorlo, fino al fico d’india, possono competere con
le proprietà degli alberi di montagna: per esempio, il legno di castagno fornisce gli
estratti più antiossidanti, seguite dalla buccia del frutto del melograno. Seguono a
ruota, le cortecce di abete rosso e i ramoscelli di abete bianco.
Queste notevoli proprietà antiossidanti sono estremamente benefiche per la salute umana,
e molte piante montane hanno infatti elevate proprietà medicinali, utilizzate da
millenni da popolazioni anche lontane tra loro, come spiegato dalla ricercatrice
Adrienne Mayor dell’Università di Stanford3. Oggi, la
ricerca è attiva nella
riscoperta di queste proprietà e nella loro più ampia accessibilità, grazie alle nuove
tecnologie di estrazione e standardizzazione. Equilibrio del metabolismo, salute
cardiovascolare, microcircolo, protezione dai radicali liberi, prevenzione oncologica,
perfino la libido maschile e femminile: solo alcuni dei punti focali della salute umana
alla cui salvaguardia e controllo i prodotti estratti dalle piante montane possono
contribuire in misura importante.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
The Soul of Remedies mira a sensibilizzare sulla dimensione estetica della
nostra
attuale crisi ecologica, sulla sottile bellezza della biodiversità e sul potere benefico celato
al suo interno.
Le piante alpine, l'erba e i rimedi naturali sono indicatori, in positivo e
in
negativo, della relazione tra genere umano ed ecosistemi montani.
I materiali provenienti
dalle Alpi svizzere, comprendono piante officinali come il
mirtillo (Vaccinium myrtillus), l'ortica (Urtica dioica), la felce
(Pteridophyta) e il lichene
(Letharia vulpina), ma anche essenze di acqua minerale ottenute dall'artista
direttamente da fonti della bassa valle
dell'Engadina in Svizzera, bioindicatori come la cera d'api e il vischio. Tutti elementi
naturali che fanno riferimento a
una percezione olistica dell'ambiente montano.
Nella sua ricerca, George Steinmann è impegnato a studiare e a diffondere lo studio e la
conoscenza della lunga tradizione di rimedi naturali e dei metodi di cura omeopatica nella
cultura alpina.
Un tipo di pratica transdisciplinare che ha origine dalla consapevolezza che
una maggiore conoscenza e sensibilità olistica possa espandere il senso di responsabilità nei
confronti del nostro habitat e il sentimento di riconnessione con la Madre Terra. Ma anche
l'invito
rivolto alla scienza ad ampliare i propri orizzonti di ricerca, per giungere a evidenze su temi
inesplorati.
La montagna sentinella
L’Italia è un Paese di montagna che si crede di pianura. Da questa falsa percezione
scaturiscono molti dei disastri naturali che ci affliggono, così come la trascuratezza
di ambienti cui si deve letteralmente la vita.
Studi recenti, coordinati dal ricercatore del CNR Andrea Piotti, hanno dimostrato che la
preservazione genetica di certe specie di piante montane tra Alpi, Appennini, Pirenei e
Alpi Dinariche, è una delle misure chiave per tentare di superare l’incipiente collo di
bottiglia dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica1,
2. L’abete bianco
occupa un ruolo speciale, perché grazie alla sua resilienza e capacità di propagazione
nei rifugi glaciali dell’Europa meridionale, ha la capacità di garantire la
sopravvivenza delle foreste montane anche a fronte dei più duri cambiamenti climatici.
D’altra parte, una piantina come il mirtillo, coi suoi frutti piccoli e delicati,
fornisce ingredienti insostituibili per ottime ricette di cucina ma anche per
integratori alimentari di provata efficacia rispetto a importanti patologie come
insufficienza venosa, problemi del microcircolo e sindromi che affliggono la vista, come
la maculopatia degenerativa3.
Le stesse acque oligominerali, insostituibili risorse di minerali per il nostro
organismo, scaturiscono quasi esclusivamente da sorgenti montane.
La montagna è sentinella, dalla vetta si vede più lontano: non a caso, il CNR e il CAI
da alcuni anni conducono un progetto i cui frutti saranno raccolti dalle future
generazioni. Il progetto “Rifugi sentinella del clima e dell’ambiente”4, una rete di
stazioni di monitoraggio di alta quota su Alpi e Appennini, finalizzata a cogliere in
anticipo, come una concreta macchina del tempo, i segnali di cambiamento del clima,
inclusi i ghiacciai alpini, e della composizione dell’atmosfera, e consentirci di
adottare tempestivamente le misure atte a contrastarne o almeno mitigarne le
conseguenze.
Non sorprenderà che, presso le stesse stazioni, è stato avviato il monitoraggio della
qualità del cielo notturno: non da meno dell’inquinamento dell’aria, l’inquinamento
luminoso – che dalle popolose pianure illumina anche il cielo delle montagne –
rappresenta una pressione tanto indebita quanto pericolosa per la salute, sia delle
piante, delle praterie e della fauna di alta quota, sia anche dell’essere umano5, 6.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
Nella sua pratica Paola Anziché realizza sculture morbide e tattili partendo da un processo di
ricerca in cui indaga la possibilità dell’arte di stabilire relazioni con diversi ambiti
culturali come l’antropologia, gli antichi rituali, la bioarchitettura e la scienza. La sua
curiosità la porta a viaggiare e a entrare in contatto con diverse tradizioni che vengono poi
reinterpretate. Il lavoro manuale, il gesto, l’attenzione ai materiali utilizzati, con una
particolare preferenza per quelli naturali, rappresentano il fulcro della sua pratica, connotata
da un carattere altresì performativo e partecipativo.
Mediante un processo lento, che prevede l’immersione di tessuti naturali colorati nella cera
liquida, l’asciugatura e successivamente l’intreccio, Paola Anziché ha creato La terra
suona,
una scultura morbida che evoca la forma di un grande alveare.
Uno spazio accogliente, nel quale la giustapposizione dei colori in cromie delicate ricorda un
prato fiorito in primavera, il cui profumo permea lo spettatore, agendo sul corpo e sulla
mente.
Il visitatore è invitato ad adagiarsi sul tappeto di juta, la cui texture riprende le forme
esagonali delle celle di un alveare, e a vivere un’esperienza multisensoriale e benefica.
Paola Anziché
La terra suona, 2022
Tessuto cerato e juta; tappeto alveare in tessuto di juta
Courtesy l’artista
Confessioni ecosistemiche, foreste e abitudini alimentari
Prima che dalle interconnessioni umane, dai trasporti e da internet, il nostro pianeta è
fortemente interconnesso dai suoi ecosistemi terrestri più importanti: le grandi
foreste naturali o non gestite, ormai patrimonio quasi esclusivo delle basse e delle
alte latitudini, che provvedono al sequestro del carbonio e alla stabilità climatica.
Un complesso studio su reti di ecosistemi forestali ha mostrato che, se la distanza che
separa due grandi ecosistemi forestali cresce oltre un certo limite, per esempio a causa
della deforestazione, almeno uno di questi ecosistemi può precipitare verso
l’estinzione, amplificando la portata della deforestazione stessa1. Inoltre, soltanto
le foreste non gestite sono in grado, attraverso la loro libera evoluzione, di
ottimizzare la proporzione degli alberi vecchi e giovani, consentendo alla foresta
stessa di prosperare e fornire tutti i propri servizi: la riforestazione con alberi
giovani, al contrario, non consente il recupero della funzionalità di un importante
meccanismo conosciuto come “pompa biotica”2, 3. Tale
meccanismo, tuttora soggetto a
ricerche e verifiche, consiste nel “riciclo” dell’umidità oceanica attraverso distanze
anche di migliaia di chilometri, grazie a complessi effetti della traspirazione dell’umidità
dalle foreste sulla circolazione atmosferica.
È stato anche dimostrato che una transizione della dieta umana dalle proteine animali a
quelle vegetali consentirebbe enormi risparmi del consumo di suolo, di acqua e di
emissioni di gas serra4, 5. Ottenere cibi di origine
animale per mezzo
dell’agricoltura intensiva, che è necessaria per produrre mangimi, richiede un consumo
di suolo e di acqua da 2,4 a 33 volte superiore, e genera da 2,4 a 240 volte più
emissioni di gas serra, rispetto a un sistema di produzione orientato al solo consumo di
proteine vegetali. La ragione fondamentale è che soltanto il 15% delle proteine
vegetali fornite dalle coltivazioni e destinate ai mangimi si trasformano in equivalenti
proteine animali per il consumo umano. Circa l’85% delle proteine vegetali originarie
vanno perdute a causa del normale metabolismo animale: soltanto una piccola parte delle
proteine ingerite si trasformano in proteine animali, il resto essendo destinato alle
altre funzioni dell’organismo. Consumare direttamente i vegetali coltivati, invece,
consente di accedere al 100% delle relative proteine, oltre che ai preziosi composti
bioattivi di cui sono ricchi e che rappresentano importanti contributi alla nostra
salute. Modificare le abitudini alimentari a livello globale rappresenta quindi, se non
la soluzione del problema climatico, almeno una condizione necessaria a liberare ampi
territori da destinare all’espansione delle foreste naturali, oltre che ad abbattere le
emissioni di gas a effetto serra e quindi contrastare i cambiamenti climatici.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
Fernando García-Dory è il fondatore di INLAND, collettivo creato nel 2009 in Spagna per ripensare
in modo collaborativo le relazioni tra ruralità e cultura. Qui ha sviluppato apiari per
proteggere le api e per fornire agli abitanti miele e prodotti salutari come propoli e pappa
reale.
An apiary for the Inland Village fa parte di un progetto più ampio che prevede la
creazione di
un apiario e di una capanna come spazio di guarigione e di incontro tra conoscenze e specie. Un
luogo all’interno del quale l’utilizzo dei poteri curativi e terapeutici dell’alveare – la
presenza di vapori aromatici di cera, miele, polline e propoli, la micro-vibrazione e la
frequenza sonora del ronzio delle api, la temperatura fisiologica stabile e la ionizzazione
dell’aria – hanno un impatto benefico sull’essere umano.
L’installazione audio
presenta un paesaggio sonoro in cui il suono prodotto dalle api, che ha proprietà benefiche
grazie alle sue frequenze e che la scienzasta cercando di dimostrare, si intreccia a un coro di
donne impegnate nella pratica tradizionale
di “raccontare alle api” la morte di membri della propria famiglia, al fine di evitare ulteriori
lutti.
L’opera, in dialogo con gli altri lavori presenti, celebra il potere delle api e la dimensione
terapeutica che questa specie è in grado di generare a diversi livelli, sia nella sfera umana
sia nei processi biologici del mondo naturale.
INLAND / Fernando García-Dory
An Apiary for the Inland Village,
2021
Installazione sonora
Courtesy INLAND – Campo Adentro
In collaborazione con Antooloops
La salvaguardia del paesaggio sonoro
Il senso umano dell’udito è uno dei principali mediatori degli effetti benefici prodotti
dall’immersione forestale. Verosimilmente, si tratta di un’ulteriore conferma
dell’ipotesi della "biofilia”1 secondo cui l’ambiente
naturale, dove Homo sapiens ha
vissuto per gran parte della propria storia evolutiva, comporta il minimo impegno
dell’attenzione, lasciando così scorrere i pensieri e consentendo di tornare a se
stessi. I suoni naturali sono in grado di alleviare lo stress, l’ansia e l’agitazione,
incidendo sull’attività parasimpatica del sistema nervoso, così come dimostrato anche
dal miglioramento di alcuni indicatori fisiologici come il livello di conduttanza
cutanea, la frequenza e la variabilità della frequenza cardiaca2. Il suono del vento
tra le foglie, il canto degli uccelli e soprattutto quello dell’acqua che scorre hanno
dunque il potere di indurre rilassamento e benessere, soprattutto se non “sporcati” da
rumori artificiali, siano essi quelli di una strada trafficata o di una motosega. Anche
nel caso degli stimoli sonori, infatti, è molto importante la “coerenza ambientale”,
ovvero l’assenza di fattori di disturbo, “fuori contesto” e, viceversa, della presenza
di elementi attesi in un luogo forestale (per es., corsi d’acqua in aree montane; suoni
forestali non contaminati; assetto forestale naturale o rinaturalizzato; ecc.).
L’importanza della componente sonora nel contribuire agli effetti di recupero legati
alla frequentazione di ambienti naturali è stata riconosciuta solo in tempi recenti,
anche perché molti studi si sono tradizionalmente focalizzati sulla componente
visiva.
Recenti evidenze mostrano che, in situazioni di laboratorio in cui venivano isolati gli
input sensoriali (visivi e uditivi), gli stimoli uditivi erano addirittura più efficaci
rispetto all’esposizione ai soli stimoli visivi3.
Oltre ai suoni prodotti dagli alberi e dall’acqua corrente, l’ambiente sonoro della
foresta consta dei suoni prodotti dalla fauna, in particolare volatile, tra cui le api.
Taluni sostengono, in attesa però di prove scientifiche convincenti, che le particolari
frequenze tra 400 e 500 Hz del ronzio delle api favoriscano uno speciale rilassamento
psicofisico; certo è invece il forte beneficio prodotto dal complesso dei suoni del
bosco, purché non contaminato da rumori artificiali4.
L’inquinamento acustico, al pari di quello luminoso, è ormai ubiquo e pervasivo.
L’impatto sulla salute è spesso sottovalutato, o quantomeno considerato un inevitabile
corredo delle nostre vite urbane, fastidioso ma ineludibile.In realtà l’esposizione
prolungata al rumore, anche a soglie basse, è un problema di salute pubblica in senso
stretto, che ha ripercussioni a lungo termine sia a livello di funzionalità uditiva sia
su diverse funzioni mentali come attenzione e memoria, contribuendo a condizioni di
stress e quindi aumentando i rischi cardiocircolatori.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), in Europa occidentale si perdono
ogni anno oltre 1,6 milioni di anni di vita a causa del rumore dovuto al traffico. I
disturbi del sonno, l’aumento dei livelli degli “ormoni dello stress” e dello stress
ossidativo nel sistema vascolare e nel cervello, possono favorire la disfunzione
vascolare, l’infiammazione e l’ipertensione, aumentando così il rischio di malattie
cardiovascolari5.
Oltre alla salvaguardia dei paesaggi sonori naturali, sempre più rari, è auspicabile che
l’attenzione alla componente sonora diventi parte integrante della progettazione del
paesaggio “riparativo”, ad esempio nei parchi urbani, perché possano svolgere al meglio
le loro funzioni di riduzione e antidoto allo stress.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
Lucas Foglia è cresciuto in una piccola fattoria a cinquanta chilometri a est di New York City.
La sua famiglia, che ha sempre vissuto di ciò che coltivava, utilizzando il baratto come
strumento di scambio, ha preservato una relazione privilegiata con la natura, al riparo dalle
dinamiche di centri commerciali e contesti urbanizzati. La foresta che confinava con la loro
fattoria è stata per l’artista un territorio selvaggio da esplorare, un luogo sconosciuto ai
vicini, pendolari a Manhattan.
La relazione tra modernità e natura, tra l’essere umano e il suo habitat – sia esso naturale o
antropizzato – sono il fulcro di tutta la ricerca del fotografo americano.
Human
Nature è un
racconto fotografico, di cui in mostra sono esposte otto immagini, che indaga il rapporto tra
genere umano e natura, attraverso uno sguardo multifocale. A volte con ironia, altre volte con
una certa malinconia, le immagini raccontano del tempo presente e di quello futuro, della
necessità di trovare una connessione con la natura e con il lato selvatico che risiede in
ciascuno di noi. Ogni storia è ambientata in un ecosistema diverso: città, foresta, montagna,
fattoria, deserto, ghiacciaio, oceano e vulcano.
Human Nature racconta dunque di come oggi la natura sia cura e minaccia allo stesso
tempo.
Mentre passiamo più tempo che mai in casa a guardare gli schermi, i neuroscienziati dimostrano
che il tempo all'aperto è vitale per la salute e la felicità dell'essere umano.
Se da un
lato le
fotografie esaminano il nostro bisogno di luoghi selvaggi, in quanto spazi terapeutici nel
contesto dell'Antropocene, dall’altro ci ricordano infatti come a causa dell’impatto antropico,
essi siano diventati estremamente temibili, rendendoci vulnerabili alle tempeste, alla siccità,
alle ondate di calore e al gelo.
Ambientazioni artificiali, salute mentale e soluzioni naturali
Nel 2019, 970 milioni di persone nel mondo, cioè il 13% della popolazione mondiale,
vivevano con disturbi mentali1. In Europa, secondo gli
ultimi dati relativi al 2016,
i problemi di salute mentale interessavano una persona su sei, con un costo di 600
miliardi di euro, ossia oltre il 4 % del PIL. I disturbi mentali più comuni nei paesi
dell’UE sono i disturbi d’ansia (5,4% della popolazione), seguiti dai disturbi
depressivi (4,5%) e dai disturbi legati alla droga e all’alcol (2,4%)2. I disturbi
alla salute mentale rappresentano un problema crescente nelle aree urbane e diversi
studi suggeriscono che la vita urbana rappresenta un fattore di rischio che mina la
salute e il benessere mentale3. I residenti urbani hanno
maggiori probabilità di
essere esposti a fattori di stress ambientale come il traffico, il rumore e
l’inquinamento atmosferico, che a loro volta influenzano il sistema psicofisiologico.
Allo stesso tempo, i cittadini sono meno esposti all’ambiente naturale, in primis per la
disponibilità limitata di spazi verdi nelle città, e quindi ai suoi effetti benefici e
riparatori.
Negli ultimi anni, gli effetti rilassanti e riparatori dell'ambiente naturale hanno
gradualmente guadagnato attenzione, anche grazie allo sviluppo di strumenti di
misurazione medica che hanno facilitato l'accumulo di prove scientifiche basate su
parametri fisiologici.
Il riconoscimento del valore sanitario delle pratiche “nature-based”, offre in
prospettiva una grande opportunità per integrare le cure mediche tradizionali con
pratiche preventive e terapeutiche accessibili anche ai soggetti a basso reddito, che
sono spesso più inclini al rischio di disturbi mentali.
Gli effetti, oltre che sulla salute individuale e pubblica, sono ampiamente positivi
anche sul piano del risparmio dei costi sanitari: un ampio studio condotto nel 2019 ha
dimostrato che il valore annuale globale della frequentazione delle aree naturali
protette, quali i parchi nazionali, in termini di costi evitati per la salute mentale
dei visitatori, ammonta a circa l’8% del PIL nei Paesi più industrializzati, ossia fino
a mille volte il budget
assegnato per la conservazione delle stesse aree naturali protette4. Questo valore è
minore, ma sempre sopra il 4%, nei Paesi meno industrializzati, dove la tecnosfera non è
ancora così invasiva, sebbene in espansione inesorabile5.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
La ricerca di Zora Kreuzer è incentrata sul colore ed esplora le potenzialità estetiche e
concettuali che scaturiscono dalla sua fruizione. Attraverso lavori di carattere ambientale, nei
quali pigmenti e cromie sono messe in dialogo con la luce, l’artista conduce lo spettatore
all’interno di esperienze immersive e multisensoriali.
Le sue opere, formalmente minimali ma
tecnicamente fondate su un principio dinamico, sono sviluppate a partire dal fenomeno della
radiazione elettromagnetica, sfruttando una lunghezza d'onda compresa tra 380 e 760 nanometri,
in altre parole la luce che il sistema visivo umano è in grado di percepire.
Effetti percettivi e fisiologici come lo sfarfallio dei colori (attraverso la giustapposizione
di colori ad alto contrasto), la comparsa di post-immagini (dopo un'osservazione prolungata di
un colore, il suo complementare diventa visibile quando si chiudono gli occhi), o la riduzione
percepita dell'intensità del colore attraverso l'assuefazione dell'occhio, sono solo alcuni
esempi di fenomeni che si verificano ripetutamente osservando le sue opere site-specific.
La mescolanza di valori come intensità, tonalità, sfumatura e temperatura – sapientemente
codificati dall’artista – restituisce una dimensione visiva di carattere fluido, nella quale è
percepibile la sensazione di osservare una sfumatura in costante divenire.
Nell’installazione Green Room, Zora Kreuzer è intervenuta sulle pareti dello spazio
attraverso
la stesura di una pittura di colore verde, la cui rifrazione viene accentuata attraverso l’uso
della luce ultravioletta trasmessa da una lampada LED. L’opera, nata in relazione agli studi che
i ricercatori del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino stanno
conducendo sull’impatto del colore verde sull’essere umano, è concepita come una sorta di bagno
cromatico.
Green Room ripropone artificialmente – accentuandola – l’esperienza di sollecitazione
percettiva
e sensoriale alla quale siamo sottoposti nel momento in cui osserviamo ed entriamo in contatto
con il colore verde che è presente in un contesto naturale, come nel caso della montagna.
L’opera sollecita una serie di interrogativi ai quali la scienza sta cercando di dare risposta:
in che modo reagiscono i nostri sensi nel momento in cui entriamo in contatto con il verde? Come
impatta questo colore, in tutti i suoi gradienti, sul nostro benessere psicofisico? Dopo quanto
tempo è possibile rilevare un’alterazione dei parametri vitali in risposta alla sua esposizione?
E per quanto tempo? Che tipo di scenari apre la conferma da parte della scienza di tale
relazione positiva?
Zora Kreuzer
Green Room,
2024
Pittura a dispersione su parete, luce UV e lampada LED
Courtesy l’artista
Il nostro cervello intrepreta le differenti lunghezze d’onda della luce visibile come
colori. Nella vita
quotidiana, siamo abituati ad associare ai colori importanti informazioni sull’ambiente
che ci circonda:
per esempio, se vediamo una bacca rossa siamo portati a pensare che sia velenosa e
pericolosa per
la nostra salute. I colori guidano quindi la nostra attenzione e le nostre scelte,
aiutandoci a sopravvivere.
È un qualcosa di ancestrale, ma il nostro cervello fa ancora di tutto per rilevarli e
distinguerli.
Ma i colori sono anche capaci di scatenare emozioni e condizionare il nostro umore e
stato di
benessere. In particolare, i colori “freddi” (come verde e blu) inducono un effetto
rilassante, che
comporta dei veri e propri cambiamenti fisiologici. Per esempio, sappiamo che immergersi
nella
natura dona un’immediata sensazione di benessere psicofisico. Fino a pochi anni fa
questo concetto
si basava su mere osservazioni empiriche, ma oggi vi sono prove scientifiche che
dimostrano come
l’esposizione ad ambienti naturali possa generare reali cambiamenti nel nostro corpo. Si
modificano
infatti la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca ed il funzionamento del sistema
immunitario1. Ma
ancora più evidenti sono gli effetti sulla salute mentale: stare immersi nel verde
scatena sensazioni
di felicità e benessere, mentre riduce ansia e depressione, modificando i livelli di
neurotrasmettitori,
ormoni e molecole responsabili dello stress2. Anche per
questo, medici e chirurghi spesso si vestono
di verde o blu, cercando così di mettere a loro agio i pazienti. Inoltre, indossare
lenti che filtrano certi
colori può modificare le onde elettroencefalografiche e ridurre l’ansia3. Tali reazioni fisiche sono anche
tenute in considerazione dai pubblicitari nell’ambito del cosiddetto “neuromarketing”,
una branca
del marketing che studia gli aspetti cognitivi del consumatore per influenzarne
preferenze e acquisti.
Inoltre, la fototerapia può avere effetti sui ritmi circadiani4 e sull’espressione di cellule GABAergiche
o glutamatergiche e sulla percezione del dolore. Gli spazi verdi in città sono associati
a emozioni
positive, mindfulness e rilassamento.
Ma non è solo la vista e la contemplazione del verde a donarci un senso di rilassamento
quando
camminiamo in un bosco. È ormai acclarato5 che alcune piante
possano rilasciare sostanze volatili
chiamate terpenoidi e terpeni (tra cui pinene e limonene), in grado di indurre risposte
benefiche su tutto
il nostro corpo, alla base degli effetti del forest bathing. Alcune di queste sostanze,
oltre ad esibire
una forte attività antiossidante e anti-neuroinfiammatoria, sembrano essere anche
neuroprotettive6.
Nel tentativo di sfruttare i benefici dell’immersione nel verde anche per quelle persone
che non hanno
accesso diretto alla natura, le tecnologie “immersive” multisensoriali virtuali
potrebbero diventare
sempre più rilevanti.
— Marina Boido e Alessandro Vercelli
Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi, Università degli Studi di Torino