Area 2
Le opere di Ruben Brulat nascono quasi sempre da un’esperienza di viaggio e dal cammino che
l’artista intraprende per raggiungere alcuni dei luoghi più remoti al mondo. La natura è il
luogo nel quale e mediante il quale Brulat porta avanti il suo personale bisogno di capire
dove e perché siamo.
Famose sono le immagini che ritraggono il suo corpo nudo mimetizzato
all’interno di luoghi montani, foreste, deserti, vulcani e ghiacciai. Ambienti incontaminati nei
quali la fusione tra essere umano ed elementi naturali si manifesta attraverso azioni dal
carattere performativo.
Il tentativo di unirsi alla terra, di sentirne la sostanza, di
diventare
un tutt’uno con la natura, evocano al tempo stesso sentimenti di forza e fragilità.
Nel video
Doigt, voir dans le vert des jungles, girato tra le foreste nel massiccio montuoso del
Ruwenzori, in Africa, l’inquadratura si concentra sul momento in cui il dito dell’artista entra
in contatto con la vegetazione.
Un gesto dal sapore alchemico, l’incontro tra un corpo umano
con
le forze primarie della natura.
Ruben Brulat
Rouge Hanche, 2022
Giclée Hahnemühle Photo Rag Pearl
Courtesy l’artista e Ncontemporary, Milano-Londra-Venezia
Le foreste per la stabilità del clima
I servizi resi dagli alberi al nostro pianeta vanno dal sequestro del carbonio, alla
produzione di ossigeno, alla conservazione del suolo e alla regolazione del ciclo delle
acque. Gli alberi sostengono i sistemi alimentari naturali e umani e provvedono al
riparo per innumerevoli specie, uomini inclusi attraverso i materiali da
costruzione.
Se tutti gli ecosistemi forestali sono importanti, le foreste tropicali sono
fondamentali per l'equilibrio planetario e per la stessa sopravvivenza della specie
umana.
La deforestazione e il degrado forestale nelle grandi foreste tropicali, al di là della
perdita di un importante fattore di sequestro del carbonio atmosferico, hanno gravissimi
impatti ambientali, anche a causa dei loro effetti sulla regolazione del clima1.
Dal 1990 la superficie delle foreste primarie - presenti ormai solo nelle zone tropicali
e boreali - è diminuita di oltre 80 milioni di ettari, e oltre un terzo della superficie
forestale è andata perduta rispetto ai tempi precedenti allo sviluppo delle civiltà
umane2. Se il primo e più evidente servizio offerto dalle
foreste globali è quello
del sequestro del carbonio, si ipotizza che le grandi foreste naturali giochino un ruolo
ancora più importante rispetto alla stabilità del clima, grazie al rilascio in
atmosfera di grandi quantità di vapore acqueo che, diminuendo la pressione dell’aria
nella bassa atmosfera, facilitano l’afflusso di aria umida dall’oceano. Tale meccanismo,
noto come “pompa biotica” e teorizzato per primi da due fisici russi, riesce a
trasferire il vapore acqueo fino a grandi distanze dagli oceani, garantendo dunque le
precipitazioni in aree molto interne3. In Sud America, il
bacino del Río de la Plata
dipende dall’evaporazione dalla foresta amazzonica per il 70% delle sue risorse idriche,
e la Cina occidentale, che ospita le più estese coltivazioni di cereali, dipende per
ben l’80% delle sue risorse idriche dall’umidità riciclata dalle foreste euro-asiatiche
(dalla Scandinavia alla Russia orientale)4.
Questa capacità di regolazione del clima è garantita soprattutto dalle grandi foreste
naturali o non gestite, non disturbate da azioni antropiche, la cui salvaguardia
dovrebbe essere una priorità assoluta nel contesto dei progressivi cambiamenti del
clima globale.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
La ricerca di Bianca Lee Vasquez è incentrata sulla formalizzazione di aspetti invisibili e
sfumature alle quali molto spesso non prestiamo attenzione. Affascinata dal profondo legame che
unisce l’umano a tutto ciò che lo circonda e sensibile alle forze naturali che interagiscono con
il nostro aspetto biologico e mentale, l’artista dà forma a opere di carattere installativo che
forzano il nostro sguardo sulla realtà.
L’uso del corpo, ora come presenza fisica (l’artista
propone abitualmente delle attivazioni di carattere performativo), ora evocato in maniera
simbolica, è una costante.
In Dirt High Series, Bianca Lee Vasquez porta nello
spazio espositivo
una porzione di terra fertile compostata su cui sono installate figure in argilla cotta.
Presenze dalle forme sinuose e dall’estetica arcaica, che rimandano ai concetti di femminile,
fecondità, simbiosi e metamorfosi.
L’artista evoca il legame primordiale e simbiotico che
unisce
ontologicamente gli esseri umani alla Terra, richiamando alla mente saperi e sensibilità di
civiltà arcaiche, tutt’ora particolarmente vive nelle popolazioni indigene.
In riferimento
al
tema della mostra, il lavoro chiama in causa una serie di studi scientifici recenti: in prima
battuta quelli volti a indagare l’effetto antidepressivo sulla mente umana da parte del batterio
Mycobacterium vaccae, presente nel terreno e in grado di generare una sensazione di
felicità
grazie all’aumento dei livelli di serotonina e di norepinefrina nel sangue; inoltre, quelli
relativi all’impatto benefico sull’attività cerebrale della geosmina, una sostanza prodotta da
diverse classi di microrganismi, tra cui cianobatteri e attinomiceti, rilasciata nell’aria
attraverso un aerosol di minuscole particelle nel momento in cui la pioggia tocca il suolo,
generando il tipico odore di pioggia e terra bagnata, tecnicamente noto come “petricore”.
Bianca Lee Vasquez
Dirt High Series, 2021–2024
Installazione
Courtesy l’artista e Sainte Anne Gallery, Parigi
L'olfatto, il "senso primordiale"
Il naso può essere considerato come la parte più esterna del nostro cervello.
Nell’epitelio olfattivo sono infatti presenti i neuroni sensoriali olfattivi, i cui
recettori ricevono gli stimoli odorosi e li trasmettono direttamente alla corteccia
cerebrale, senza la mediazione del talamo, come avviene per gli altri sistemi
sensoriali.
A differenza di altri neuroni, quelli olfattivi hanno l’abilità di rigenerarsi
continuamente, per contrastare le insidie dovute alla loro posizione esterna
(aggressione di agenti esterni quali virus, batteri).
Tra le aree del cervello che vengono direttamente attivate dai neuroni olfattivi, alcune
fanno parte del sistema limbico, come amigdala, ippocampo e ipotalamo, e sono
intimamente legate all’elaborazione delle emozioni e della memoria. Questa rete
olfattiva estesa riflette l'importanza del senso dell'olfatto per mediare le risposte
fisiologiche e comportamentali a eventi emotivamente stimolanti in molti animali, e
spiega perché l’olfatto abbia un effetto così veloce sulla modulazione della risposta
emotiva, e sia il più efficace fra i sensi nell’evocazione dei ricordi1-3.
Nel 1964, i ricercatori australiani Isabel J. Bear e Richard G. Thomas pubblicarono
sulla rivista “Nature” un articolo nel quale utilizzarono il termine “petrichor” –
petro (pietra) e ichor (il sangue degli dei) – per descrivere il profumo di pioggia
sulla terra arida4. Il fenomeno olfattivo, reso possibile
dall’aerosol atmosferico
che i due scienziati hanno documentato, ha origine dalla diffusione nell’aria di oli
essenziali (precedentemente prodotti dalle piante) da spore funginee, batteri e dalla
geosmina presente nel materiale geologico.
Più di recente, gli scienziati del MIT di Boston hanno dimostrato che una maggiore
quantità di aerosol viene prodotta su rocce porose e quando la pioggia cade lentamente
piuttosto che velocemente, perché queste condizioni danno il tempo all'aria intrappolata
nel materiale geologico di uscire dal minerale ed essere vaporizzata nell'aria5.
In ambienti poco urbanizzati, come la montagna, la geosmina prevale sulla presenza di
ozono nell’aria e quindi viene percepita in maniera più intensa. È per questo motivo che
in montagna si avverte subito quel particolare odore di terra fin dall’avvicinarsi di
una precipitazione. Sono numerosi gli studi che, a livello internazionale, stanno
analizzando gli effetti positivi del petrichor e della geosmina sull’attività cerebrale
dell’essere umano. Ricercatori della School of Natural Resources and Environmental
Sciences della Corea del Sud e del Dipartimento di Neurobiologia e Comportamento della
Stony Brook University di New York hanno concluso che essi sono in grado di generare
emozioni profonde che calmano la mente e alleviano l’ansia.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale
L’opera di Caterina Morigi esplora la dimensione minerale a livello micro e macroscopico quale
elemento di contatto tra mondo naturale e corpo umano, partendo dalla constatazione che, così
come le ossa umane sono composte da fosfato di calcio, così le montagne sono formazioni
geologiche fatte di minerali, in particolare carbonato di calcio, principale componente del
marmo.
Nel corso degli ultimi anni l’artista ha collaborato con alcuni ingegneri
e ricercatori dell'Università di Bologna e dell'Istituto Ortopedico Rizzoli
di Bologna, impegnati a individuare nuove modalità per la conservazione di questo materiale.
Dopo aver constatato che le ossa umane sono la parte dei corpi che sopravvive più a lungo e che
in particolari condizioni ambientali se ne conserva maggiormente la parte organica o quella
minerale, gli studiosi ne hanno analizzato il funzionamento a livello microbiologico, osservando
una serie di caratteristiche che possono essere prese ad esempio per l’innovazione del marmo
impegnato in contesti di esposizione alle intemperie.
Grazie a queste analisi gli studiosi
hanno
sviluppato una serie di ulteriori ricerche che si muovono nella direzione opposta. A partire
dalle
conchiglie sono infatti in fase di progettazione dei materiali biocompatibili che potranno
essere
impiegati per la realizzazione di protesi o elementi da innestare all’interno del corpo
umano.
Da queste indagini e dalla constatazione che la collaborazione tra il mondo umano e quello
naturale può avvenire anche nella sfera minerale, Caterina Morigi ha realizzato l’opera The
Common Skeleton of Things.
La sovrapposizione di immagini di marmi, ossa, paesaggi
e
microscopici dettagli delle stesse materie prime, vuole rivelare come, a livello sostanziale, la
sfera dell’umano e di ciò che è other than human – in questo caso il mondo minerale –
hanno
molto più in comune di quanto immaginiamo, o addirittura sono totalmente miscibili.
Caterina Morigi
The Common Skeleton of Things, 2024
Stampa diretta su plexiglass, con cornice in alluminio
Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna
Dalle ossa al marmo, dal marmo alle ossa
In natura, molti elementi non viventi (come la pietra) e viventi, o da essi derivati (come le conchiglie
o le ossa umane ed animali), si formano attraverso processi di mineralizzazione, che possono durare
millenni o poche ore.
Molte pietre come il marmo ed i calcari porosi sono formate in tutto o in parte da un costituente
principale, il carbonato di calcio (CaCO3), che ne determina le caratteristiche, ma è anche il loro
principale elemento di debolezza. Infatti, sebbene la pietra appaia nell’immaginario comune come un
materiale eterno, in realtà si consuma progressivamente per effetto delle piogge e del calore solare,
portando nei secoli alla perdita di millimetri, o persino centimetri di superficie.
Tuttavia, il carbonato di calcio, così solubile, è simile al minerale che forma le ossa, l’idrossiapatite
(Ca10(PO4)3OH2), che è insolubile e resistente. Più precisamente, il carbonato della pietra può
essere trasformato in idrossiapatite, immergendolo in una soluzione salina e formando uno strato
che lo protegge dalle piogge e dalle aggressioni dell’ambiente naturale, ripristinandone la coesione.
Per questo, negli anni, sono stati studiati trattamenti per trasformare la pietra in idrossiapatite,
proteggendola. L’idrossiapatite che si forma sulla pietra assume una caratteristica forma a scaglie
nanometriche, che ne rivestono la superficie. Tuttavia, quando questo materiale così trattato entra a
contatto con contaminanti , il rivestimento protettivo può cambiare composizione e forma, assumendo
architetture che ricordano i fiori, ma scarsamente protettive. Per questo, ogni singolo substrato lapideo
deve essere studiato singolarmente, in laboratorio ed in situ ai fini di ottimizzarne la resistenza.
Come il marmo, anche i gusci delle conchiglie sono composti da carbonato di calcio e quindi anch’essi
possono essere convertiti in idrossiapatite, permettendo di ottenere materiali in grado di rigenerare
le nostre ossa. Infatti, le cellule presenti nel nostro organismo possono progressivamente degradare
e riconvertire in osso materiali che ad esso somiglino per composizione, anche detti biomimetici.
Le conchiglie trasformate in idrossiapatite, quindi, possono essere utilizzate per “ingannare” le
nostre ossa, creando sostituiti artificiali in grado di mimare perfettamente la loro composizione ed
architettura (usando, ad esempio, la stampa 3D), spingendo l’osso ospite a riconoscerlo come parte
dell’organismo, dissolverlo ed inglobarlo progressivamente, convertendolo nel tempo in una parte
dell’organismo.
— Gabriela Graziani
Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta”, Politecnico di Milano
L’opera – nata anche dal dialogo con Massimo Bernardi, paleobiologo presso il MUSE e Alice Labor
– è stata
realizzata nell’ambito della residenza artistica Arte a San Leonardo, presso l’omonima tenuta
dell’azienda vinicola trentina.
Nel trittico di disegni spiccano i profili del Monte Baldo e dei Monti Lessini. Al di sotto
della linea dei monti, fiorisce un trionfo di segni in cui si intrecciano linee che ricordano
sia il sistema circolatorio e i vasi capillari presenti nel corpo umano, sia il sistema di
rizomi e radici che attraversano il suolo di un bosco.
In questo complesso sistema di
arabeschi,
di sinuosità biomorfe e fitomorfe, si possono incontrare immagini prese da diverse tavole di
anatomia umana e animale che, per omomorfia, si riversano le une nelle altre, in uno scambio
continuo di significati, simbologie e visioni.
Marzia Migliora tenta di narrare il viaggio
di un
elemento più-che-umano, l’acido tartarico, un precipitato già presente nelle uve fin dalla
fioritura, che si stabilizzano nella bevanda il colore e i profumi caratteristici.
All’interno di questa storia, l'acido tartarico diventa un ponte fra il paesaggio e il corpo
umano. Si
racconta del continuo ciclo della materia, che inizia nelle rocce della montagna, per essere
stoccato negli acini d’uva, successivamente bevuto e diventare parte di noi esseri umani.
Ciò che viene rappresentata è l’immagine di un grande organismo multispecie, vitale e pulsante,
di cui siamo parte. Un ambiente primigenio, nel quale sono evidenti le linee di continuità e di
parentela dentro e fuori dal corpo umano e non umano, che inevitabilmente producono mutamenti e
adattamenti nella nostra sfera biologica.Inserito in un ciclo di ricerca più ampio – che negli
ultimi anni ha portato Marzia Migliora a indagare il rapporto tra produzione di cibo, merce e
plusvalore del modello capitalista e allo sfruttamento delle risorse umane, animali e minerarie
– il lavoro sostiene la necessità di ripensare i paradigmi culturali, oltre a quelli economici e
produttivi, e il riavvicinamento a una coscienza biocentrica e interspecie.
Marzia Migliora
Paradossi dell'abbondanza #61 (La rivoluzione del tempo profondo),
2024
Disegno, trasferelli, polvere di tartaro in rilievo su carta, tre tavole
Collezione privata. Prodotto in occasione di Arte a San Leonardo
Courtesy dell’artista e Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli
La ragnatela della vita
Ciascun prodotto vegetale che troviamo in varie forme e ricette sulla nostra tavola,
assorbe e rielabora, sintetizzandoli secondo il proprio specifico metabolismo, primario
e secondario, preziose sostanze offerte dalla natura: dall’acqua ai minerali, dai
carboidrati ai grassi e alle proteine, fino ai metaboliti secondari tra cui vitamine,
polifenoli, antociani e carotenoidi. Proprio questi metaboliti secondari, o
micro-nutrienti, svolgono funzioni fondamentali sia per la salute delle piante che del
nostro organismo, proteggendoci dagli agenti ossidanti e rinforzando le nostre difese
immunitarie.
L’acido tartarico è particolarmente abbondante nell’uva e nel tamarindo, e talmente
rappresentativo da essere assunto quale standard nei sistemi di analisi dell’acidità dei
liquidi alimentari1.
Non solo, l’acido tartarico rappresenta un prodotto di estrazione della vinaccia di
primario interesse. Le tecniche di estrazione presentano efficienze di vario grado, in
dipendenza dalla temperatura, dall’acidità, e dai livelli di cloruro di calcio,
ottenendo comunque importanti rese di estrazione, comprese tra 50 e 75 grammi di acido
tartarico per kg di vinaccia2.
Grazie alle sue proprietà antiossidanti, regolatorie del pH, e preservanti, l’acido
tartarico è ampiamente applicato in varie categorie di alimenti, inclusi prodotti
caseari, oli e grassi edibili, prodotti a base di carne e pesce, frutti e verdure, e
bevande analcoliche e alcoliche. In una forma modificata, l’acido tartarico è utilizzato
anche in prodotti da forno, grazie alla sua capacità di reagire con il bicarbonato di
sodio per produrre anidride carbonica senza richiedere onerosi e lunghi processi di
fermentazione. Per tutto questo, la ricerca sui metodi di estrazione delle vinacce più
verdi, efficienti e produttivi è sempre più vivace, in grado anche di restituire un
composto di molecole speciali nascoste nei semi, durissimi, dei residui di spremitura:
le proantocianidine oligomeriche, tra le molecole più antiossidanti conosciute in natura3.
Dalle rocce del Baldo e dei Monti Lessini, così come dal sottosuolo delle colline
mediterranee, e ormai anche dalle rocce di alta montagna, dove la vite è coltivata fin
sopra i mille metri di quota, la strada dell’acido tartarico è lunga e complessa, una
ragnatela della vita che dalle profondità inerti della Terra avvolge ogni momento della
nostra esistenza.
— Francesco Meneguzzo, Federica Zabini
Istituto per la BioEconomia, CNR – Sesto Fiorentino (FI) CAI Comitato Scientifico Centrale